LAICITÀ (Sergio Carletto)

fr. laïcité; ingl. Secularism; ; ted. Säkularität Etimologia

Dal tardo latino laïcus (Tertulliano), ricalcato sul greco laïkòs (italiano laico, fr. laïque). Nelle lingue anglosassoni manca un equivalente semantico facendosi spesso ricorso a termini derivati dal latino saeculum (ingl. Secularism; ted. Säkularität). Il termine “laico”, in forma aggettivale in riferimento a persone e non a cose (così è utilizzato nel senso di “profano” nelle versioni greche dell’AT di Aquila, Simmaco e Teodozione), ricorre in ambito cristiano per la prima volta in Clemente Romano (Ad Corinthios 40,5) e sta ad indicare una categoria di persone distinta rispetto al Sommo Sacerdote e agli altri membri della gerarchia sacerdotale tardo-giudaica.

Per estensione, il termine giungerà a designare nei Padri della Chiesa, in alternativa ai termini plebs e plebeius, una categoria all’interno del nuovo “popolo” di Dio, distinta dal kleros (clerus), espressione sinteticamente utilizzata per designare tutti coloro che hanno ricevuto l’ordinazione sacramentale e/o hanno scelto la vita religiosa in virtù della solenne professione dei consigli evangelici, e si ritrovano pertanto in una condizione di elezione o di separatezza rispetto ai semplici cristiani. La definizione residuale del laico, ovvero del cristiano battezzato, ma subordinato al potere gerarchico-sacramentale del ministro ordinato, assume una particolare sfumatura nel Medioevo allorché, nel contesto della dottrina dei tre ordines nel seno della societas christiana (oratores, bellatores, laboratores) viene utilizzato per indicare il “signore” o colui che esercita un potere “civile” (principe o sovrano) istituito da Dio, ma resta pur sempre estraneo all’ordo sacerdotalis.

Storia

Se il cristianesimo ha riconosciuto sin dagli inizi una certa distinzione tra la sfera del potere civile (a cui si deve obbedienza anche se ancora pagano) e quella del potere spirituale (cfr. Mt 22,21, dottrina delle “due spade” di papa Gelasio I) la chiesa d’Occidente e il papato, soprattutto a partire dalla riforma gregoriana e sino alla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, non ha saputo mantenersi immune da tentazioni e rivendicazioni teocratiche.

I conflitti religiosi dell’età della Riforma, la nascita dello Stato assoluto e la crisi di legittimazione su base teologico-politica della sovranità, avviano un processo di neutralizzazione delle fedi religiose nella sfera civile e politica; le norme del diritto naturale e del diritto positivo devono valere “etsi Deus non daretur” (U. Grozio). Nel contesto illuministico caratterizzato, non solo in filosofia, dalla Religionskritik, dall’avvio della secolarizzazione e dal consumarsi del regime di cristianità (sinfonia tra trono e altare), la laicità assume ulteriori implicazioni socio-religiose nel senso dell’indicazione di una emancipazione che produce una libertà e una “estraneità” del laico nei confronti della chiesa e dei suoi insegnamenti dottrinali e morali.

Il termine laicità tende ad assumere pertanto il significato di neutralità e aconfessionalità dello Stato nei confronti di visioni totalizzanti di matrice religiosa e più tardi ideologica, che pretendano fondare la convivenza associata in forma esclusivistica, pur senza escludere forme di collaborazione più o meno accentuata tra politica e religione. Lo Stato, superando norme e pratiche discriminatorie e repressive nei confronti del dissenso religioso e teologico concede una libertà religiosa più o meno estesa ai singoli (libertà di pensiero ed esercizio pubblico del culto), ponendo progressivamente tra parentesi il concetto stesso di religione di Stato o culto stabilito Si veda come emblematico il Primo Emendamento della Costituzione americana del 1791 che prescrive agli Stati ad un tempo la free exercise clause e la no establishment clause, e, con minore coerenza, la legislazione rivoluzionaria francese.

La Chiesa, soprattutto nei paesi cattolici, vede limitato il proprio status tradizionale di esclusività e i propri tradizionali “diritti” anche attraverso il ricorso alla forza della legge o ad eventi rivoluzionari. Ciò determina nel Magistero del papato un atteggiamento reattivo e di condanna irrevocabile di ogni concezione “separatista” dei rapporti tra Stato e Chiesa, realizzatasi in forme diverse nell’età del liberalismo. La secolarizzazione determina una presa di congedo della società, della cultura e dei poteri pubblici dal regime di christianitas; un percorso che viene osteggiato in quanto espressione di una forma di ateismo ed indifferentismo caratterizzante gli esiti soggettivistici e libertari del pensiero moderno. Le politiche pubbliche tese a “conculcare” i “diritti della Chiesa” vengono pertanto ricondotte alla categoria del “laicismo” e interpretate come l’esito di un atteggiamento anti-cristiano militante teso a privare la Chiesa degli strumenti e dei mezzi necessari alla sua missione pastorale nella società.

Tale atteggiamento “reattivo” favorisce inoltre una ulteriore deriva gerarcologica del cattolicesimo, con la crescente difficoltà a valorizzare la dimensione “comunionale” dell’ekklesia e a riconoscere al “laicato” cristiano un ruolo attivo all’interno del contesto ecclesiale: a quest’ultimo è richiesto, non solo nell’ambito del culto e dei sacramenti, ma anche nella sua azione nella società (lavoro, famiglia, scuola) un atteggiamento di incondizionata sottomissione ed obbedienza agli insegnamenti del Magistero e alle disposizioni dei pastori e un rifiuto incondizionato dei valori “modernisti”.

In tale contesto, tra coloro che, crdenti o meno, valutano comunque positivamente il superamento di forme di clericalismo, di dogmatismo e di conformismo intellettuale, il termine laicità viene ad acquisire il significato di “ogni atteggiamento” intellettuale “che, contro i dogmatismi e gli assolutismi religiosi, ideologici, politici promuove comportamenti di libertà, di autonomia e di tolleranza attiva“ (Carlo Leopoldo Ottino). Va da sé pertanto che possono manifestarsi atteggiamenti laici, o all’opposto dogmatici e intolleranti, senza distinzione tra i credenti, i diversamente credenti e gli atei militanti.

Bilanci

Le trasformazioni in atto nelle società europee di oggi pongono nuove sfide ai diversi modelli, ormai consolidati, di determinazione dei rapporti tra lo Stato e le diverse confessioni religiose presenti e operanti nell’ambito della società civile: nuove sfide quindi alla laicità. Tra esse menzioniamo: 1) La ridefinizione della laicità nel contesto di società accentuatamente pluraliste e/o multiculturali; 2) L’integrazione “comprensiva” dei differenti modelli di laicità nell’area UE e nelle democrazie mature (o in via di consolidamento) dei diversi continenti dall’area ex- sovietica all’America latina; 3) La sfida dei “fondamentalismi” e dei “nuovi movimenti religiosi” di diversa origine e matrice, alla consolidata delimitazione tra “pubblico” e “privato”; 4) Il ruolo delle confessioni religiose e delle chiese in democrazia e nel dibattito della sfera pubblica pre-deliberativa e deliberativa su temi di rilevanza etica generale, soggetti a normazione.

Due sono i modelli fondamentali di declinazione della laicità, tenendo conto del fatto che la sopravvivenza di “chiese di Stato” costituzionalmente riconosciute (come la Chiesa d’Inghilterra, alcune chiese luterane scandinave e la Chiesa Ortodossa Greca) in alcuni paesi (modello confessionalistico), è da considerarsi un fatto residuale in via di sostanziale superamento a livello legislativo e giurisprudenziale, almeno nell’Europa centro-occidentale e nell’area UE: un modello che tende a non determinare prassi discriminatorie nei confronti dei diversamente credenti. In Europa orientale, a un passato recente e tragico, appartengono fortunatamente l’ateismo di Stato di matrice marxista-leninista, e le pesanti restrizioni alla libertà religiosa nello spazio pubblico, e anche personale, a esso connesse.

Il primo modello è quello francese di “laicità” integrale, giunto a completa realizzazione con le leggi Combes del 1905, che introducevano una rigida separazione tra Stato e confessioni religiose – con l’esclusione dell’Alsazia-Mosella in cui restò in vigore il Concordato napoleonico del 1801 e con alcune contraddizioni quali il finanziamento statale degli Istituti scolastici religiosi. L’evoluzione, ormai secolare, di tale modello condusse certo alla cancellazione di una serie di privilegi ecclesiastici residuali dell’Antico Regime, detenuti dalla Chiesa cattolica, che ritrovò in tal modo una integrale libertà nei confronti di pratiche “giurisdizionalistiche” del passato, ma anche al rischio di restrizioni all’esercizio pubblico della libertà religiosa, non solo da parte cattolica. Tali limitazioni (la severa recente legge del 2003, sul Divieto di ostensione dei simboli religiosi nella scuola pubblica ne costituisce l’esempio più recente) avvenne in nome del riconoscimento della preminenza nello spazio pubblico dei valori e degli ideali della Repubblica (inclusa la laicità stessa) nella forma di una vera propria “religione civile” tesa a forgiare una comune cittadinanza ed un comune patriottismo.

Il secondo modello (di fatto prevalente) è fondato sul riconoscimento alle diverse confessioni religiose di uno statuto specifico, e talora “asimmetrico”, da parte dello Stato, attraverso la stipula di Concordati o Intese, oppure, come è il caso tedesco (e svizzero), del riconoscimento alle chiese cattolica ed evangelica dello status di “corporazioni di diritto pubblico” nei diversi Länder. Tale modello si associa comunque a standard relativamente elevati di protezione della libertà religiosa dei singoli e dei gruppi (libertà di culto, libertà di professare credenze religiose, libertà di mutare la propria appartenenza religiosa).

Nel caso dell’Italia, il principio di laicità desumibile da diverse norme costituzionali e la garanzia della libertà religiosa a tutti su un piede di eguaglianza (art.8), si salda al riconoscimento dell’autonomia delle confessioni religiose nell’ambito loro proprio (pastorale, cultuale, organizzativo) nonché all’esigenza di una leale cooperazione tra lo Stato e queste ultime nella promozione del bene comune della nazione. Le “materie miste”, sulle quali potrebbero insorgere conflitti o tensioni, tra diverse forme di “diritto religioso” e la legge dello Stato (conforme ai principi fondamentali costituzionalmente garantiti) vengono regolate in forma il più possibile estesa in forma consensuale attraverso la stipula di Intese tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Tale modello, che è venuto evolvendosi in modo flessibile nel corso dei decenni successivi al 1948, con il superamento del riconoscimento al cattolicesimo della qualifica di “religione ufficiale dello Stato”, in direzione di una più coerente laicità (riconosciuta come principio di valenza costituzionale nel nostro ordinamento dalla Corte Costituzionale dalla sentenza 203/1989, che la qualifica come “la garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e politico”) presenta tuttavia ancora elementi di incompiutezza e di asimmetria.

A distanza di un sessantennio dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana manca ancora una legge organica sulla libertà religiosa che, superando gli elementi residuali della legislazione sui “culti ammessi” del 1929-1930 assicuri a tutti, cittadini italiani e stranieri, appartenenti o meno alle confessioni religiose con cui lo Stato ha stipulato Concordati o Intese l’esercizio della libertà religiosa in foro interiore e nello spazio pubblico, in un regime di eguale libertà.

L’inserimento nella Costituzione dell’art.7, che riconosceva ai Patti Lateranensi del 1929 una valenza costituzionale, pur non costituendo ipso facto un vulnus al principio di laicità dello Stato, pone una serie di questioni che non hanno potuto essere risolte neppure con il riconoscimento da parte cattolica della libertà religiosa e del valore della laicità a seguito del Vaticano II (GS 36, “autonomia delle realtà terrene”) e con il conseguente Accordo di Revisione del Concordato del 1984 (si pensi alla questione del crocifisso nelle aule scolastiche, al finanziamento pubblico delle scuole confessionali, alle questioni aperte relative all’insegnamento religioso della religione cattolica, all’accesso su un piede di parità al servizio pubblico radiotelevisivo, al carico fiscale dei beni immobili ecclesiastici).

Nella consapevolezza della complessità delle trasformazioni culturali e religiose in atto si può peraltro ritenere che l’attuazione coerente del principio di laicità dello Stato incontri comunque e ovunque ostacoli di natura culturale, storica e sociale, di cui il legislatore deve comunque tener conto. In molti paesi europei esistono religioni di maggioranza e di minoranza che dispongono nei singoli paesi di un diverso peso “culturale”, “politico” ed “economico” e quindi di una diversa forza di far valere le proprie ragioni nello spazio pubblico. Gli eventi successivi al 1989 hanno dimostrato che il rischio di discriminazioni e di vessazioni nei confronti delle minoranze religiose, condotte con l’ausilio dei pubblici poteri, costituisce una realtà tutt’altro che ipotetica, siano esse giustificate in nome della laicità intransigente, della lotta contro il presunto “lavaggio del cervello” da parte delle “sette”, della lotta contro il terrorismo globale di matrice islamica o ancora si realizzino in nome di un “confessionalismo” strisciante.
In generale, comunque, pur nelle loro significative differenze, gli ordinamenti giuridici delle democrazie costituzionali, affermano tutti de facto la preminenza del principio di laicità, in virtù del riconoscimento ad un tempo della libertà religiosa a livello individuale e associato (libertà di coscienza e di conversione ad altra religione, di esercizio del culto, ma anche libertà di espressione delle proprie convinzioni religiose nello spazio pubblico fatte salve le esigenze derivanti dall’ordine pubblico), ma anche di una garanzia della neutralità dello Stato nei confronti delle diverse fedi e confessioni religiose.
Il crescente pluralismo religioso e confessionale, che ha per protagonisti soggetti religiosi minoritari spesso diversi rispetto a quelli tradizionalmente prevalenti, pone in questione la consolidata delimitazione tra sfera pubblica e sfera privata anche sul versante religioso. Non tutte le tradizioni religiose, che convivono oggi in Europa, hanno maturato al proprio interno (a livello di visione teologica riflessa e di pratiche conseguenti) o hanno comunque introiettato nella stessa misura una concezione dei rapporti tra religione e Stato, tra diritto civile e diritti religiosi, improntata alla separazione tra Stato e confessioni religiose, che è stata il lento e sanguinoso prodotto delle esperienze della storia europea. I recenti fenomeni della “rinascita del sacro” e la riconquista da parte delle religioni dello spazio pubblico, che hanno fatto seguito alla crisi delle ideologie dell’ultima fase del Novecento, pongono oggi certo salutarmente in discussione e in crisi una visione ristretta della libertà religiosa quale mera libertà di coscienza, che fu ed è spesso associata a forme di “laicismo” e “ateismo” militante e intollerante, che intendevano espellere la religione dello spazio pubblico, ma propone per altro il rischio di forme più o meno surrettizie di “ri- confessionalizzazione” della sfera pubblica e in prospettiva dello stesso Stato, condotte magari in nome della rivendicazioni di identità culturali ed assiologiche chiuse o rigidamente intese. Le religioni e le visioni comprensive di senso possono offrire un contributo prezioso al legame sociale, minato da forme di individualismo e di edonismo, purché sappiano rinunciare a riproporre l’antico connubio tra trono e altare, e a rivendicare per sé una forma di potestas indirecta in temporalibus.

Sergio Carletto

Bibliografia

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