TEOLOGIA POLITICA (Davide Sisto)

(fr. théologie politique; ingl. political Theology; ted. politische Theologie)

Etimologia

Con il concetto di teologia politica si intende, in senso ampio, ogni possibile relazione che intercorre tra la politica e la teologia. Da tale concetto si possono evincere, in particolare, tre significati differenti, ciascuno dei quali corrisponde a uno dei tre intrecci possibili tra i due termini che costituiscono l’espressione. Nel caso in cui l’accento sia posto soprattutto sul termine teologia, possiamo intendere con l’espressione teologia politica una sorta di politica della teologia, il cui intento principale consiste nel porre in luce come un determinato ordine politico sia subordinato al dettame religioso, quindi condizionato da qualsivoglia riferimento al sacro o al teologico. Nel caso in cui i due termini tendano a equivalersi concettualmente, abbiamo a che fare con una riflessione sull’essenza teologica della politica e sul valore filosofico-politico intrinseco a ogni teologia, in modo tale che emergano le analogie vigenti tra concetti teologici e concetti politici. Nel caso, infine, in cui l’accento sia posto soprattutto sul termine politica, possiamo intendere con l’espressione teologia politica una sorta di teologia della politica, vale a dire una dottrina teorica che si sofferma sul potenziamento che un’impostazione teologica offre alla dimensione politica, rafforzando il legame comunitario e l’ordinamento interno di una società (Scattola, Nicoletti).

Antesignana del concetto è l’espressione latina theologia civilis, per la prima volta usata nella Città di Dio di Aurelio Agostino d’Ippona (354-430), che nel quarto libro ricorda il pontefice Quinto Muzio Scevola (150-82 a.C.), allievo dello stoico Panezio (180-110 a.C.), in quanto sostenne l’istituzione di tre categorie divine: quella dei poeti, quella dei filosofi e quella dei governanti politici. Tale classificazione fu accolta nelle Antichità religiose di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), il quale la tramuta in una sorta di teologia tripartita: mitica, fisica e politica per i greci, leggendaria, naturale e civile per i latini. Mentre la teologia mitica o leggendaria si ritrova nelle opere dei poeti e quella fisica o naturale nelle teorie dei filosofi, la theologia civilis riguarda il culto pubblico tributato agli dei dalle città e «stabilisce quali déi bisogna adorare pubblicamente e quali sacrifici si debbano loro offrire» (Agostino, De Civitate Dei, VI, 5), cosicché sia garantita alla comunità politica la massima prosperità.

Storia

L’inizio della storia della teologia politica si trova nelle aspre critiche che numerosi autori cristiani (Agostino in primis, ma anche Minucio Felice, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Arnobio, Eusebio) rivolgono nei confronti della menzionata theologia civilis. Costoro le imputano di essere un’invenzione umana o una pura idolatria, dal momento che essa, nel promuovere un sistema di credenze e pratiche cultuali per ricavarne esclusivamente comportamenti utili alla comunità politica, rende il religioso un fenomeno strumentale, quindi immanente al mondo umano, confondendo il piano terreno con quello celeste. Agostino considera la theologia civilis falsa, giacché mescolata con la teologia leggendaria (poeti) e con quella naturale (filosofi), immorale, poiché prende a prestito i miti poetici e attribuisce agli déi ogni genere di azioni malvagie, e ingannevole, in quanto contraddice la verità della teologia naturale e si serve dell’inganno per controllare i popoli. La critica agostiniana, riferimento principale per la trattazione della teologia politica in età medievale, comporta il disuso del concetto, nonché un tangibile imbarazzo anche solo ad affrontare la tematica politica della teologia cristiana, almeno sino all’inizio del Seicento. Durante il XVII secolo la formula latina theologico-politicus, per quanto risulti essere notevolmente diffusa, non travalica tuttavia l’ambito della giurisprudenza, designando il rapporto giuridico tra la teologia e la politica quali discipline separate. In particolare, tale formula viene usata dalla teologia e dalla giurisprudenza protestanti, come dimostra – per esempio – la Dissertazione teologico- politica sul diritto episcopale (1646) di Michael Havemann, nella quale si portano alla luce le competenze giuridiche nella scelta del clero e nell’amministrazione di beni religiosi da parte del signore territoriale (Scattola). Nel corso del secolo, però, come effetto delle dispute che scaturirono dal Trattato teologico-politico (1670) di Baruch Spinoza, l’espressione theologico-politicus viene abbandonata dal mondo luterano e si afferma definitivamente tra i cattolici e gli anglicani.

Il termine teologia politica ricompare solo nel Settecento con Giambattista Vico il quale, con intenti prevalentemente espositivi e metodologici, lo riavvicina alla religione civile degli antichi. Vico definisce la propria scienza nuova come «teologia civile ragionata della provvidenza divina», quindi come una conoscenza che permette agli uomini di comprendere le modalità attraverso cui l’intelligenza divina provvede alla prosperità delle società umane e al loro parallelo incivilimento (Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, 1744). L’illuminismo ritorna alla teologia tripartita di Varrone, modificandola in prospettiva deista. Nell’Encyclopédie di Diderot-D’Alembert la teologia politica viene definita come la teologia «abbracciata principalmente dai principi, i magistrati, i preti e i corpi del popolo, come la scienza più utile e più necessaria per la sicurezza, la tranquillità e la prosperità» (Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D’Alembert, 1781). L’illuminismo settecentesco si sofferma soprattutto sulla funzione pedagogica della teologia politica, la quale deve obbedire ai dettami della scienza giuridica e favorire il rafforzamento del legame sociale.

Sebbene continui a restare ai margini della discussione teorica, il concetto di teologia politica, dall’età delle rivoluzioni e lungo tutto il corso dell’Ottocento, assume connotazioni fortemente variegate. Edmund Burke, con toni assai polemici, contesta i «teologi politicanti e i politici teologizzanti», in quanto essi, proponendo una commistione deleteria di politica e religione, esaltano i moti rivoluzionari come segni di una provvidenza divina (Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, 1791). Di segno totalmente opposto sono le teorie di altri importanti esponenti conservatori del pensiero controrivoluzionario cattolico, come Louis Gabriel Ambroise de Bonald, Joseph de Maistre e Juan Donoso Cortés, i quali sono accomunati dalla convinzione che soltanto la scoperta del nesso intimo tra ordinamenti politici e rappresentazioni religiose fornisce il fondamentale antidoto alla crisi aperta dalle rivoluzioni. Sulla scia del pensiero controrivoluzionario, il romanticismo politico della Germania verte attorno all’idea che una concezione politica debba essere ispirata dalla teologia e, in particolare, dall’organizzazione sociale del Medioevo cristiano, particolarmente idealizzato all’interno dei circoli romantici. Accanto alle posizioni dei fratelli Schlegel e di Adam Müller, Novalis nel frammento La cristianità ossia l’Europa, redatto nel 1799, contrappone al processo di scissione a cui è sottoposta la cristianità, per colpa della Riforma protestante, dell’illuminismo e della rivoluzione francese, il modello politico-teologico dell’Europa medievale, quale garanzia suprema per una vita spirituale e politica indivisa. Posizione in parte condivisa da F.W.J. Schelling il quale, nelle Lezioni private di Stoccarda (1810), sostiene che lo Stato debba sviluppare in sé il principio religioso e poggiare le proprie fondamenta, in vista del superamento della scissione perpetrata durante la modernità, su convinzioni teologiche di carattere universale. Di tutt’altra idea sono Ludwig Feuerbach, là dove mette in luce la corrispondenza tra lo sviluppo della teologia, che si risolve nell’antropologia, e la monarchia che si estingue nella repubblica (Nachgelassene Aphorismen, 1841-47), e Michail Bakunin, il quale critica come teologia politica il patriottismo nazionale di chi, come Mazzini, fa della nazione una potenza positiva e assolutamente prioritaria rispetto ad ogni altra cosa (La teologia politica di Mazzini e l’Internazionale, 1871).
Solo nel Novecento viene formulata una dottrina vera e propria della teologia politica, almeno a partire da Hans Kelsen e Carl Schmitt, i quali impressero una svolta fondamentale al concetto, giacché tentarono di mettere in luce, sullo sfondo della teoria sociologica di Max Weber, le analogie vigenti – sia sul piano storico che su quello teoretico – tra concetti teologici e concetti giuridico-politici. In diversi saggi composti tra il 1913 e il 1923, come Dio e lo Stato (1922-23) e Il concetto sociologico e il concetto giuridico dello Stato (1922), Hans Kelsen coglie una palese corrispondenza concettuale tra il monoteismo cristiano e la struttura logica dello Stato sovrano, quale conseguenza di una metafisica sociale autoritaria che, rappresentando la sovranità come un principio assoluto, sulla falsariga della teologia che vede in Dio l’essere trascendente per eccellenza, deve essere superata per il bene collettivo; per far ciò, occorre liberare la scienza giuridica da ogni riferimento al trascendente, partendo dalla consapevolezza che la democrazia e il religioso sono sostanzialmente incompatibili. L’imposizione di un Dio inteso come essere sovrannaturale e dello Stato come ente sovragiuridico è, per Kelsen, il frutto di una visione religiosa rigorosamente monoteistica, che va soppiantata da un panteismo giuridico, all’interno del quale Dio e il mondo siano uguali e ogni diritto sia diritto dello Stato. Carl Schmitt, nella sua fondamentale Teologia politica del 1922, assume una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella di Kelsen, giacché s’impegna a sottolineare la necessità per la politica moderna di una corrispondenza reciproca tra religione e diritto; egli considera la teologia politica come strumento per porre l’attenzione sul ruolo fondamentale che la trascendenza deve ricoprire in ogni sistema politico. Schmitt ritiene che tutti i concetti basilari della dottrina politica di uno Stato sono concetti teologici secolarizzati, cioè traslati in campo politico. L’interpretazione in termini metafisici del processo di secolarizzazione e del fondamento teologico di ogni ordine politico determina, tuttavia, una tale osmosi tra teologia e politica, da compromettere la loro reciproca autonomia. Da una parte, la politica rischia di dipendere dalla teologia, al punto che diviene tangibile la possibilità di giustificare un nuovo regime politico su base teologica; dall’altra, la religione rischia di essere così condizionata dalla comunità statale, da perdere la propria purezza spirituale. Nei confronti della teologia politica di Schmitt, di conseguenza, si concentrano le critiche di diversi studiosi del XX secolo. Per esempio, il teologo Erik Peterson definisce ereticale la natura di ogni teologia politica (Il monoteismo come problema politico, 1935), intraprendendo una lunga diatriba con Schmitt. Hans Blumenberg, invece, rivendica l’autonomia storica del mondo presente (La legittimità dell’età moderna, 1966), mentre Jan Assmann riespone la dottrina di Schmitt capovolgendola: «Tutti i concetti pregnanti [...] della teologia sono concetti politici teologizzati» (Teologia politica tra Egitto e Israele, 1991). Il dibattito sulla teologia politica coinvolge non solo la filosofia, ma anche la teologia protestante e cattolica che, negli anni Venti e Trenta, cerca di ricavare dalle letture bibliche quei principi basilari in grado di fondare e regolare la vita politica (ad esempio, Jacques Maritain nella sua nota opera Umanesimo integrale, 1936).

Bilanci

Nel corso del Novecento viene formulata una nuova dottrina della teologia politica, alla luce della quale diviene possibile problematizzare il sintagma suddetto in relazione al crescente pluralismo religioso che contraddistingue la società contemporanea. Il dibattito novecentesco non può, inoltre, fare a meno di intrecciarsi con l’affermazione definitiva del fenomeno della secolarizzazione e con l’assunzione di nuove prospettive escatologiche, richieste nel mondo cristiano quale risposta a tale fenomeno. Per tale ragione, la nuova teologia politica si presenta come ermeneutica del messaggio cristiano nella società secolarizzata (Nicoletti), ponendosi due obiettivi principali: il primo consiste nell’opposizione nei confronti di ogni deriva intimistica del messaggio evangelico e del mutamento della religione in una pratica esclusivamente privata, il secondo nel monitoraggio delle gerarchie ecclesiastiche, affinché in esse non prevalgano mire autoritarie o teocratiche. Johann Baptist Metz, nei saggi Responsabilità della speranza (1965), Sulla teologia del mondo (1968) e nel volume Sul concetto della nuova teologia politica (1967-1997), e Jürgen Moltmann, nel testo Una nuova teologia politica (1970), sono i due rappresentanti più significativi di questa nuova teologia politica, segnata dall’intreccio profondo tra escatologia e libertà, su uno sfondo teorico che evidenzia la comunicazione profonda tra teologia e politica (Filoramo). Entrambi considerano obsolete quelle tendenze di natura trascendentale, esistenzialista e personalista che tengono separata la religiosità personale dal dibattito politico pubblico. Ogni affermazione teologica deve essere misurata sulla base delle implicazioni, non solo individuali, ma anche collettive della terminologia e della simbologia di cui fa uso (Moltmann). Il carattere politico intrinseco alla teologia è strettamente unito alla promessa escatologica che inerisce necessariamente alla fede, per cui il futuro è il metro di giudizio delle verità religiose e politiche e il regno di Dio a venire è il riferimento principale di tutte le società umane, di contro ai pericoli mondani che seguono un processo di secolarizzazione totalmente concentrato sul presente.

Le varie forme di teologia politica, che prendono piede dagli anni Sessanta in poi, tendono a seguire i modelli teoretici proposti da Metz e Moltmann, suddividendosi in due grandi gruppi: l’uno insiste sul tema dell’emancipazione implicata dalla fede, l’altro predilige la costituzione escatologica dell’esistenza cristiana (Scattola). Attorno al concetto di emancipazione ruota la teologia della liberazione, sorta in America Latina in seguito al Concilio Vaticano II e volta alla ricerca della natura divina di Cristo nella pratica sociale del riscatto dei poveri. Tale teologia non mira solo alla liberazione dal peccato, così come insegna la Chiesa, ma anche alla liberazione della persona, in vista della sua emancipazione individuale, e alla liberazione economica e politica delle classi sociali oppresse. Solo così è possibile portare concretamente il messaggio evangelico all’interno di situazioni politico-sociali alquanto problematiche (Gustavo Gutiérez, Juan L. Segundo, Lucio Gera, Emilio Castro, Richard Shaull, tra gli altri). Alla teologia della liberazione si ispirano la teologia nera negli Stati Uniti d’America e in Sudafrica, quale strumento di emancipazione per le popolazioni di colore, e la teologia femminista, la quale persegue una riflessione religiosa in prospettiva femminile, soprattutto negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone. Sul versante escatologico, maturano riflessioni teoriche che radicalizzano la struttura teoretica del fenomeno teologico (Armido Rizzi, con la sua teologia dell’esodo, e Riccardo Panattoni in Italia). Entrambi i gruppi mettono in luce come, nella contemporaneità, un discorso relativo alla teologia politica non possa che ritrovarsi nel campo della filosofia politica, dal momento che entrambe maturano le proprie teorie a partire dal tema dell’origine, il quale riguarda ovviamente tanto il campo politico quanto quello religioso.

Bibliografia

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